Grosso investimento sul sushi a domicilio made in Italy

La vulgata vuole che la prima consegna di sushi sia arrivata a destinazione in autobus. Era il 2008, l’esercito di fattorini che sfreccia per le strade di Milano era di là da venire. In una decina d’anni il modello di distribuzione si è affinato ed è ciò che ha ingolosito gli investitori che hanno puntato 450mila euro su This is not a sushi bar, la prima catena italiana di consegne a domicilio e take away di uramaki, gunkan, temaki e chirashi. L’anno scorso l’86% del fatturato di This is not a sushi bar, pari a 1,4 milioni di euro, è arrivato dalle consegne a domicilio. La catena di ristoranti ha gestito circa 40mila ordini da internet. E ora, a undici anni dalla fondazione, i capitali freschi spingeranno il piano di espansione. 

Nell’immediato la catena aprirà altri due ristoranti a Milano, in successione il gruppo studierà lo sbarco su nuove piazze. Ci sono tre strade possibili. La prima è seguire il modello Zushi, una catena di ristoranti giapponesi che ha aperto in città “secondarie”, prima di approdare a quelle più grandi, come Milano.

La seconda è aggredire direttamente le metropoli, la terza valutare le richieste di franchising.

Matteo Pittarello, fondatore di This is not a sushi bar, spiega che l’investimento “spinge l’acceleratore sulla sperimentazione digitale, sull’identità e su un modo più moderno di gestire l’azienda, rispettando la nostra vocazione di innovatori del settore”. La catena ha sviluppato un sistema gestionale degli ordini, con una consolle che monitora in tempo reale le spedizioni e consente anche al cliente di controllare il viaggio della sua porzione di sushi. Tecnologie comuni in gruppi di tutt’altro peso, come Deliveroo ad esempio, in questo caso applicate a una media impresa locale. Parte delle risorse appena investite finanzieranno un affinamento della app, un potenziamento della user experience e un aumento delle analisi sugli ordini e sui gusti dei clienti.

Alla guida dell’aumento di capitale in This is not a sushi bar c’è Megaholding srl, società di investimento della famiglia Boroli, una delle casseforti dei patrimoni italiani, che ha anche interessi in Dea Capital del gruppo De Agostini. 

Tratto da wired.it

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