Miroglio e la sfida a Zara e H&M

Nel 2017, infatti, il gruppo Miroglio (645 milioni di ricavi nel
2015) a cui fanno capo i brand citati ha messo sul piatto 15 milioni di
investimenti per ristrutturare in dieci mesi 300 dei suoi negozi
italiani, quelli che vantano le posizioni migliori. Altri 9 milioni
saranno destinati al potenziamento dell’immagine e al rafforzamento
dell’identità dei brand. Un compito affidato ad Hans Hoegstedt, il
nuovo ad di Miroglio Fashion, la società di Miroglio Group che
controlla l’82% del business. Il resto è concentrato nel tessile
attraverso la controllata Miroglio Textile. Ce ne vuole di coraggio per
fronteggiare i colossi mondiali del fast fashion dal gruppo spagnolo
Inditex cui fa capo il marchio Zara ai conterranei di Mango senza
dimenticare il colosso svedese H&M. Ma a Hoegstedt, manager di
lungo corso che, dopo una prima esperienza nella moda dentro l’azienda
di famiglia, ha lavorato per Coca Cola, Fiat Auto e poi per il gruppo
Prysmian come Ceo per l’Italia, la Svizzera e la Turchia, il coraggio
non manca. Lo stesso Hoegstedt che delinea una strategia che sembra
mutuata da un manuale di arti marziali come lo judo e l’aikido. In
sintesi: è inutile scontrarsi con i concorrenti; meglio utilizzare la
loro forza a proprio vantaggio. «Negli ultimi due, tre anni – osserva
Hoegstedt – è cambiato
tutto nel mondo dell’abbigliamento femminile. Il mercato del fashion si
è polarizzato. Da una parte c’è il lusso con i suoi prezzi altissimi,
dall’altra il fast fashion. E quest’ultimo è contrassegnato da negozi
enormi, un servizio quasi inesistente e da un’offerta priva di brand».
Poi l’ad di Miroglio Fashion fa un’osservazione puntuale: «I nostri
negozi che vendono meglio sono proprio quelli vicini ai vari Zara,
Mango e H&M. Comprano da loro ma acquistano anche da noi. Questa è
la prova che noi siamo complementari al fast-fashion. I clienti
cercano nei nostri store quello stile e quella forza del marchio di
cui sentono la mancanza. Ecco perché stiamo portando avanti una
rivoluzione radicale per aumentare il valore percepito dei nostri
capi». Lo stile, dunque. E negozi più belli compresi fra i 120 e i 180
metri quadrati per accattivarsi i compratori fornendo un servizio più
accurato. «Per ogni marchio – precisa Hoegstedt – è previsto un concept
unico e originale dei punti vendita in modo da favorirne la
riconoscibilità sul mercato». Ma la velocità del fast- fashion non
rimane ineguagliabile? In fondo Miroglio è una azienda tradizionale nata
ad Alba nel 1947. Come può competere con gli «scattisti» spagnoli e
scandinavi del settore? «In realtà è stato proprio il nostro gruppo»,
spiega Giuseppe Miroglio, presidente dell’holding di famiglia guidata
assieme alla sorella, la vicepresidente Elena Miroglio, «a inventare
il fast fashion già negli anni ’90. Oggi il nostro sistema industriale,
la catena della fornitura e la nostra logistica non sono secondi a
nessuno. In sole 12 settimane siamo in grado di trasformare un’idea in
un prodotto già in negozio». Insomma, bravi e veloci: la base di
partenza c’è. E poi una parte del lavoro è stata già completata. Negli
ultimi quattro anni, infatti, il gruppo ha fatto pulizia: nel 2016 è
uscito dalla joint venture cinese e ha tagliato le spese
rifocalizzandosi in Italia che oggi vale oltre l’85% dei ricavi. Dunque
un’azienda più snella, che sconta una riduzione del proprio perimetro
di business, ma che punta con decisione sullo sviluppo. E si gioca le
sue carte sul mercato più difficile, quello del Bel Paese. Certo, nel
corso degli ultimi tre anni il fatturato di Miroglio Fashion è sceso
dai 572 milioni del 2013 ai 518 milioni dfel 2015.

tratto da affari & finanza

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