La frenata del fast fashion. Da H&M a Zara e Uniqlo, il modello da ripensare

Danneggiati dall’esplosione del coronavirus le aziende leader della moda veloce prevedono un calo netto dei ricavi. Era la fine degli anni ‘90, quando lo shopping, trasformato in una forma di intrattenimento, richiese ritmi accelerati di progettazione, produzione e distribuzione per soddisfare una domanda crescente di abiti economici e sempre nuovi. Per almeno due decenni, riciclare e rammendare è stato fuori moda. Da allora aziende leader come Zara, H&M e Uniqlo hanno visto i propri fatturati lievitare alle stelle in linea con la globalizzazione e l’efficienza logistica del ventunesimo secolo. Una favola durata sino al 2018 con l’entrata in crisi dello storico marchio low cost americano Forever21, andato poi in bancarotta nel settembre 2019, e con i profitti di H&M in calo per la prima volta dopo 44 anni di storia. La consapevolezza dell’impatto ambientale della moda usa e getta e le preoccupazioni per la sicurezza dei lavoratori, a seguito del crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh nel 2013 che uccise oltre 1.100 operai, hanno appannato l’immagine del fast fashion senza però ostacolarne la crescita. Nel 2019, il 97 per cento dei profitti dell’intero settore moda sono stati generati da sole 20 aziende, tra cui Inditex (società madre di Zara) al secondo posto della classifica mondiale dopo Nike, che ha chiuso il 2019 con ricavi a 28,2 miliardi e utili in crescita del 6% a 3,8 miliardi, al di sopra delle aspettative degli analisti, in aumento dell’ 8% rispetto all’anno precedente.

Lo scorso marzo con il lockdown, la domanda di nuovi vestiti è crollata. Sebbene alcuni rivenditori operino online, i flussi di entrate per molte delle più grandi aziende del mondo sono stati spazzati via. La pandemia ha scatenato una tempesta perfetta per l’intero settore, la capitalizzazione di mercato media delle aziende di abbigliamento, moda e lusso è scesa di quasi il 40 percento tra l’inizio di gennaio e il 24 marzo 2020. Una catena di approvvigionamento globale altamente integrata ha generato un’enorme tensione nella gestione della crisi su più fronti, dagli affitti, all’inventario sino alla produzione.

Dallo scorso marzo H&M, che serve 74 mercati globali, ha chiuso 3.441 negozi su 5.062 mantenendo aperti circa 50 mercati digitali online. Il colosso svedese ha dichiarato di aspettarsi gravi perdite nel secondo trimestre dopo aver registrato un calo del 46% nelle vendite di marzo sull’anno precedente. La ricaduta sui punti vendita è stata inevitabile con 8 chiusure annunciate in Italia. Zara ha riferito che il 51 percento dei suoi 7489 negozi è stato temporaneamente chiuso con 156 mercati online operativi. Zara ha registrato un calo delle vendite del 24. 1% nelle prime due settimane di marzo e deciso di accantonare 287 milioni rimandando ogni decisione sul dividendo. Uniqlo, la catena giapponese di fast retailing ha previsto un calo del 44% del profitto operativo per l’anno corrente fino ad agosto. Stoccolma esclusa, tutti i 98 negozi in Europa sono stati chiusi da marzo. In Cina, sino al mese scorso, malgrado le misure restrittive fossero state allentate in alcune città, circa la metà dei 750 negozi sono rimasti chiusi a causa dell’interruzione della catena di fornitura.

L’e-commerce, visto come il punto luminoso nel paesaggio desolato del retali in tempo di pandemia, non ha dato il rimbalzo sperato. Secondo gli analisti di McKinsey, tra marzo e aprile, le vendite online sono diminuite dal 5 al 20 percento in Europa, dal 30 al 40 percento negli Stati Uniti e dal 15 al 25 percento in Cina. Sebbene le entrate online per Inditex siano cresciute del 23 percento nel 2019, solo il 14 percento delle vendite totali avviene sui canali digitali. Sul versante svedese le cose non vanno meglio, il mercato online di H&M, aumentato del 24 percento lo scorso anno grazie a una serie di investimenti mirati, vale ancora solo una piccola parte del fatturato. L’incertezza del momento ha spostato le preferenze di spesa da scarpe e abbigliamento a generi di prima necessità, la moda resta in caduta libera. Asos, rivenditore fast fashion britannico che opera esclusivamente online, malgrado tutti suoi centri logistici attivi, ha registrato un calo delle vendite del tra il 20 e il 25 percento in seguito al calo della domanda dovuta all’introduzione delle misure di protezione contro il Covid-19.

A ricaduta, l’impatto stravolgente della pandemia si è fatto sentire lungo l’intera catena di approvvigionamento della moda. Negozi chiusi a Parigi, Londra e Milano significano fabbriche chiuse in Bangladesh, Vietnam, Sri Lanka e scorte ammassate nelle piantagioni di cotone dell’India centrale. Secondo quanto riferito dal Financial Times rivenditori in preda al panico come C&A, Gap, Primark e Topshop si sono affrettati a cancellare gli ordini di acquisto dai loro fornitori esteri, rifiutando di pagare il prodotto al fine di anticipare il crollo dei profitti. L’Associazione degli esportatori e dei produttori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA), il secondo più grande esportatore di abbigliamento al mondo dopo la Cina, stima perdite per oltre 10 miliardi di dollari a causa degli ordini cancellati. Nel paese, il settore che da lavoro a oltre 4 milioni di persone ha bruciato tre miliardi solo nel mese di marzo. Nei paesi in via di sviluppo, dove i sistemi sanitari sono spesso inadeguati, la povertà diffusa e dove mancano politiche di sostegno governative, i lavoratori in fondo alla catena di approvvigionamento pagano il prezzo più alto. In Bangladesh lo scorso aprile gli operai delle fabbriche di abbigliamento si sono scontrati con la polizia dopo la sospensione del pagamento dei salari. Ad oggi malgrado molte fabbriche siano state riaperte, restano concrete le preoccupazioni sulle norme di prevenzione anti virus adottate. In Vietnam, l’economia in più rapida crescita del sud-est asiatico prima della pandemia, dai 400.000 a 600.000 lavoratori hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi su un totale di 2,8 milioni di lavoratori del settore, secondo i dati della Vietnam Textile & Apparel Association.

L’industria della moda, il cui giro di affari è stato valutato intorno ai 2,5 trilioni di dollari lo scorso anno, spera che l’appetito dei consumatori ritorni al più presto ma le proiezioni restano sconfortanti. Secondo McKinsey le vendite globali di moda diminuiranno fino al 30% nel 2020 mettendo a rischio milioni di posti di lavoro. Una crescita positiva è prevista per il 2021 ma solo del 2-4 percento. Pesa il pessimismo diffuso dei consumatori sull’economia, con il 75% dei consumatori negli Stati Uniti e in Europa convinti che la propria situazione finanziaria sarà influenzata negativamente sul lungo periodo. La pandemia ha inoltre messo a dura prova gli impegni della moda veloce nei confronti delle pratiche ambientali e sociali già nel mirino da tempo. Quando i negozi avranno riaperto nel mondo la partita sarà ancora tutta da giocare.

Fonte: corriere.it

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