Shein mette sul piatto 50 mln $ per i rifiuti tessili. Ma resta il rischio greenwashing

Cinquanta milioni di dollari (circa 47 milioni di euro): è questa la cifra che Shein ha messo sul piatto della sostenibilità, destinandola all’avanzamento nella progettazione e implementazione di strategie legate all’economia circolare. Al centro c’è il tema dei rifiuti tessili, come testimonia l’alleanza appena stretta con The Or Foundation, organizzazione no profit con sede in Ghana e negli Stati Uniti che opera con i lavoratori della città di Accra alla quale sarà destinata una parte dei fondi.

Una mossa controversa, che ha subito attirato perplessità e critiche tra i consumatori per la sua incongruenza con il modello di business del marchio cinese di moda a basso costo. Il lancio dell’iniziativa è arrivato in occasione del Global Fashion Summit di Copenhagen, a tema “Alleanze per una nuova era”, che ha fatto il punto sull’agenda green tra obiettivi e traguardi da raggiungere entro il 2030, anno che le Nazioni Unite hanno fissato come data ultima per la transizione sostenibile.

Il finanziamento di Shein a beneficio dell’ente amplierà il programma di apprendistato di Or, incuberà soluzioni di smaltimento dei rifiuti tessili locali, iniziative pilota con i produttori tessili della nazione africana e coinvolgerà la comunità di Kantamanto, sede di uno dei più grandi market di abiti usati.

Come parte dell’accordo, Shein verserà 15 milioni di dollari in tre anni alla Fondazione Or, che inoltre ridistribuirà una parte della sovvenzione iniziale alle organizzazioni affiliate in Ghana, lavorando insieme a Shein per identificare ulteriori beneficiari di sovvenzioni in altri Paesi. Si tratta dell’altra faccia del fast fashion, in pieno ‘butterfly effect’: l’ascesa dell’industria a basso prezzo si trasforma in un disastro ambientale nei Paesi dell’Africa, in cui i cosiddetti ‘mercati di salvataggio’ si trovano a dover smaltire enormi quantità di rifiuti tessili che riempiono le strade e intasano le discariche.

Il nuovo fondo targato Shein si aggiunge a quello da dieci milioni di dollari lanciato qualche mese fa, ‘Shein Cares Fund’, attraverso il quale l’azienda prevede di investire in organizzazioni no profit e iniziative sociali di circolarità e riciclo. E, nella stessa direzione, all’inizio di maggio il gigante del fast fashion ha lanciato anche la collezione in poliestere ricavato da bottiglie di plastica riciclate ‘EvoluShein’, che ha definito un drop “dall’impatto positivo”.

Ma difficilmente i suoi passi nella direzione di una maggiore sostenibilità saranno interpretati come sufficienti, a fronte di un modello di business che dal 2008 verte sulla crescita spasmodica e sulla produzione di un’ingente mole di capi e accessori a prezzi stracciati, facendo della quantità il proprio mantra.

L’urgenza della questione dei rifiuti tessili, però, è arrivata fino al drago cinese, fino a questo momento sordo agli appelli di istituzioni, imprese e consumatori sull’impellenza di affrontare il tema dello smaltimento in una filiera altamente inquinante come quella della fashion industry. Che la moda circolare inizi e termini con il riciclo dei rifiuti tessili è ormai un dato di fatto: non è un caso che l’Unione europea abbia approvato ormai quattro anni fa un ‘Pacchetto di direttive sull’economia circolare’ che stabilisce obiettivi vincolanti per il riciclo dei rifiuti e la riduzione del numero delle discariche entro il 2025.

Persino la Cina si sta attivando in tal senso, dichiarando di voler riciclare il 25% di tutti i suoi rifiuti tessili e produrre due milioni di tonnellate di fibra riciclata entro il 2025 come parte della sua spinta per raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 e diventare carbon neutral entro il 2060.

Intanto però, al netto delle valutazioni etiche, la formula Shein sembra fin qui avere funzionato, vincendo la partita dei ricavi e permettendo all’e-tailer di conquistare il primato della moda low cost d’Oriente e non solo. Ormai con una valutazione che dovrebbe aggirarsi intorno ai 100 miliardi di dollari, l’azienda fondata a Nanchino da Chris Xu avrebbe in cantiere anche la quotazione in Borsa, con tutte le carte in regola per piazzarsi nella top 3 delle startup con una maggiore valorizzazione al mondo, dopo ByteDance e SpaceX secondo il fornitore di dati CB Insights.

Un boom che ha senza dubbio beneficiato anche del fortunato momento vissuto dagli e-commerce nel 2020 pandemico, in cui Shein ha visto lievitare i propri ricavi del 250%, crescita rallentata nel 2021 a un +60%, risultato che denota una decelerazione della sua corsa ma comunque un sensibile vantaggio sui suoi competitor della moda online.

Nel pieno di una nuova coscienza collettiva che sta trasformando l’approccio imprenditoriale delle aziende e la sensibilità all’acquisto dei consumatori, Shein si è finora fatta contagiare ben poco dalla ‘febbre green’, proseguendo indisturbata nella propria parabola di vendite stellari senza fornire dati sulla propria supply chain o sui propri obiettivi sul fronte della responsabilità produttiva.

Un’opacità che le è costata detrattori e impopolarità tra gli esperti e i consumatori più consapevoli, anche nel suo target principe ovvero la Generazione Z, e che ad oggi rende poco credibili i tentativi di ripulire la propria immagine con iniziative sostenibili che fanno pensare più a un’operazione di greenwashing che a un vero ripensamento della gestione della propria governance e del proprio impatto ambientale.

Fonte: pambianconews.com 

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