Il 20% delle grandi catene a rischio chiusura: da 6 a 8,5 anni per riprendersi

Il Coronavirus presenta un conto salatissimo alle grandi catene del nostro Paese. A causa del lockdown e del tracollo dei consumi il 20% dei punti vendita della grande distribuzione non alimentare italiana rischia di dover chiudere, con l’effetto di far perdere il lavoro a un numero tra 220mila e 380mila persone e di aprire un buco nelle casse dello Stato tra i 24 e i 32 miliardi per il mancato gettito Iva.

Questo il quadro allarmistico delineato nel rapporto “Quali impatti dell’emergenza Covid-19 sul settore della distribuzione in Italia” di The european house-Ambrosetti, presentato nel corso di una conferenza stampa digitale realizzata con Federdistribuzione.

«Una situazione così non ce la immaginavamo nemmeno nel peggiore degli incubi», ha commentato Claudio Gradara, presidente di Federdistribuzione, mettendo l’accento sulla disparità tra commercio food e non-food, con il segmento della moda fortemente impattato dalla pandemia.

«Supermercati e iper-alimentari, rimasti sempre aperti – ha spiegato – hanno per ora dribblato lo tsunami del Covid. Ma da Ovs a Zara, da Rinascente a Upim, fino a decine di piccole catene, ossia il resto del comparto fuori dall’oasi alimentare, è stato travolto dalla tempesta perfetta, nonostante non sia paradossalmente finito nell’elenco dei settori in crisi stilato dal Cura-Italia».

Senza contare che il protocollo di sicurezza previsto per il commercio fisico ha generato anche un aumento delle uscite per i retailer, dovute a interventi di sanificazione, dispositivi di protezione individuali e del posto di lavoro, sicurezza nei negozi ecc., con un incremento tra il 2% e il 4% dei costi legati alla gestione dei punti vendita.

A rendere la gravità della situazione sono i numeri: «Il fatturato 2020 di queste imprese – ha calcolato Valerio De Molli, managing partner di The european house-Ambrosetti – registrerà un calo tra il 36,7% e il 49,4%», anche per il tempismo della diffusione dell’epidemia: «Chi opera nell’abbigliamento e nella moda – ha precisato – si è ritrovato in magazzino collezioni primaverili già pagate e impossibili da vendere. E i grandi marchi di questo mondo, un po’ trascurati dai primi interventi del Governo, hanno lanciato il pressing sull’Esecutivo per riuscire a inserire nel Decreto Rilancio alcuni provvedimenti, dagli incentivi per la riduzione del costo degli affitti fino a quelli per i consumi, necessari per ridurre al minimo gli effetti collaterali della pandemia».

Il mettere in sicurezza questo comparto significa proteggere un segmento – quello della distribuzione non alimentare – che genera un giro d’affari di 301 miliardi l’anno e dà lavoro a 1,4 milioni di persone e investe nel nostro Paese 6,2 miliardi l’anno, quasi il 6% del totale nazionale.

«Senza investimenti non c’è lavoro, né crescita né futuro – ha incalzato De Molli – e non sostenere un mondo che vale, tutto compreso, 542 miliardi, pari al 12% del Pil, è un suicidio per l’Italia». Tanto che, senza sostegni dall’alto, tra il 17,8% (81.700) e il 20% (92.070) delle catene non alimentari, a seconda dei ritmi della ripresa, rischia di chiudere i battenti.

Lo shock provocato dall’epidemia avrà ripercussioni profonde, come evidenzia lo studio, soprattutto sulla distribuzione non-food, che impiegherà da un minimo di sei a un massimo di 8,5 anni a tornare ai livelli di consumi e ricavi del periodo pre-crisi.

«Anche le grandi imprese come noi hanno bisogno di sostegno per passare questa fase – ha confermato Stefano Beraldo, a.d. di Ovs -. Servono aiuti sul fronte degli affitti come quelli garantiti alle Pmi, magari con crediti d’imposta cedibili, per aiutare le negoziazioni con i locatari ed evitare conflitti tra le parti in causa. Poi vanno sostenuti i consumi, abbattendo a zero l’Iva sui prodotti per l’infanzia, come è stato fatto in Gran Bretagna, o con voucher per le famiglie. C’è bisogno pure di un intervento sul cuneo fiscale per evitare licenziamenti».

Fonte: fashionmagazine.it

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