«Nel retail cambierà l’offerta e la domanda»

In Italia e in Europa la pandemia provocherà rilevanti cambiamenti nel settore del retail immobiliare-commerciale: ci saranno difficoltà nella transizione ma si può essere relativamente ottimisti. E’ l’opinione di Issei Komi, Ceo di Italia Fudosan Real Estate, società che ha fondato a Milano nel 2006 dopo aver lasciato Merrill Lynch. Negli ultimi 10 anni la sua azienda ha affiancato una serie di marchi nella loro fase di espansione nelle città italiane, oltre ad aver assistito marchi italiani nell’apertura di negozi diretti ed anche nell’individuazione di partner per la distribuzione in Giappone. Tra le sue operazioni recenti, Tenoha (il concept store di 2.500mq con area retail, caffè, coworking e spazio eventi ricalcato su quello di Daikanyama a Tokyo); il nuovo Flagship store italiano di MSGM (brand gestito da Style Capital, che occupa l’immobile in via Broletto di proprietà di Generali); il prossimo negozio di Pineider, storico brand fiorentino che aprirà in via Manzoni al posto della prima e storica boutique milanese di Feltrinelli.

Cosa succederà alle vie dello shopping in Europa nel post-lockdown?
«Occorre anzitutto distinguere tra tre categorie di “High Street”. La prima è quella cosiddetta del “mass market”, che ruota intorno alla moda casual e vede come principali player i marchi del Fast Fashion, brand sportivi e Department Stores. Si tratta in genere di vie con “footfall” molto elevati, ampi bacini di utenza e un target variegato di clientela. La seconda è quella legata all’industria del “Luxury”: queste High Street sono per lo più occupate da boutiques di prestigiosi marchi e dalle Grandi Firme dell’alta moda. La clientela d’élite è principalmente internazionale ed incide più dell’80% sui volumi di vendita. La terza categoria è quella che mi piace definire “Affordable High Street”. Queste vie dello shopping sono in genere occupate da marchi di nicchia presenti sul territorio, con pochi punti vendita e con una clientela sofisticata, sensibile al design ed attenta alle nuove tendenze del lifestyle. Generalmente l’afflusso di turisti stranieri è molto inferiore rispetto a quello dei “locals”. Parlo di zone commerciali come Brera a Milano, Shoreditch e Marylebone a Londra, Le Marais a Parigi e Daikanyama a Tokyo.

Per quanto riguarda la prima categoria, l’industria del Fast Fashion è cresciuta in modo esponenziale dal 2007-2008 (e molti marchi occidentali sono arrivati in Giappone qualche anno dopo). La crisi del 2008 ha fatto da acceleratore al processo di crescita di questo settore: molti consumatori hanno infatti cambiato il loro stile di vita e di acquisto prediligendo lo shopping low cost. Da allora l’espansione è stata molto veloce ed ha portato i maggiori player del settore alla corsa per migliori location su strada ed all’interno di centri commerciali in periferia. Insieme al numero dei negozi è anche cresciuta la tendenza ad aprire punti vendita con superfici sempre più grandi. In risposta a tali sviluppi ed esigenze, gli affitti sono aumentati rapidamente, i proprietari immobiliari hanno cominciato ad annettere ai negozi su strada i piani superiori e gli interrati, creando così negozi con superfici commerciali maggiori di 2000 mq.
Questo settore oggi registra il maggior numero di negozi nel mondo, molti dei quali con una superficie fino a 5.000 mq e costi fissi molto onerosi. Già negli ultimi anni la tendenza all’acquisto online aveva costretto i leader di settore a rivedere alcune strategie di business, focalizzandosi sull’online oltre che sull’offline. Il Covid-19 e le misure di contenimento della diffusione del virus faranno probabilmente da acceleratore al cambiamento di modelli di business che già in tempi non sospetti cominciavano ad essere superati da nuove esigenze di mercato. Non escludo pertanto che potremmo assistere a un declino del Fast Fashion e alla chiusura di molti punti vendita. Probabilmente High Street come Oxford a Londra e Corso Vittorio Emanuele a Milano saranno quelle maggiormente colpite dall’attuale crisi e pertanto queste vie vedranno aumentare il numero degli immobili disponibili e probabilmente una riduzione sui canoni di affitto».

Quindi ci saranno nuovi affittuari interessati alle “Mass Market” High Street?
«Pur ipotizzando un aggiustamento a ribasso dei canoni di affitto da parte dei proprietari, non credo che la superficie che si renderà disponibile sul mercato possa essere riassorbita facilmente. Oggi non sono tante le aziende di commercio al dettaglio che necessitano di grandi superfici come quelle occupate fino ad oggi dall’industria del Fast Fashion. Credo piuttosto che, rimodulando gli spazi, creando negozi con superfici di circa 300 mq e rivedendo i livelli di canoni, si possano creare nuove opportunità attirando magari nuove aziende e nuovi format. Ad esempio, potrebbero crearsi nuove opportunità per i “guide shop” come quelli sviluppati da Ikea e Superstore, o ancora format innovativi legati alla vendita al dettaglio di alimenti e bevande. Inoltre, ritengo che nel futuro prossimo possa crescere l’esigenza di spazi temporanei che diano la possibilità alle aziende di misurarsi col mercato post Covid-19».

Che futuro prevede per le altre due categorie di High Street?
«Per quanto riguarda le Luxury High Street, al secondo posto per numeri di negozi nel mondo troviamo alcune holding internazionali operanti nell’industria del Luxury e principalmente della moda, come ad esempio Kering e LVMH. Questi gruppi, proprietari di diversi marchi, sono presenti nelle Luxury High Street europee con un alto numero di negozi che presentano, però, caratteristiche diverse rispetto al Fast Fashion. Si tratta di negozi di metrature medio-grandi, ma con livelli di canoni/mq molto più alti rispetto al Fast Fashion. Ritengo pertanto che anche in questo caso gli affitti molto onerosi ed il lockdown avranno sicuramente degli effetti su questo settore e sui fatturati del 2020, considerando che l’80% del volume delle vendite è riconducibile a turisti internazionali che probabilmente non potranno viaggiare ancora per qualche mese.

Il mercato immobiliare in queste vie è caratterizzato da proprietari immobiliari – come famiglie nobiliari storicamente proprietarie di immobili, fondazioni e società assicurative – che tendenzialmente non hanno immobili gravati da mutui e finanziamenti, mentre dal lato degli inquilini si è creato un monopolio tra i gruppi più importanti al mondo come quelli sopra citati. Quanto detto ha portato ad una maggior flessibilità da parte dei proprietari degli immobili a dialogare con gli affittuari per far fronte all’emergenza legata al Covid-19, allo scopo di assicurarsi il mantenimento di solide relazioni di lungo periodo: stanno tendenzialmente venendo incontro alle richieste degli affittuari per sconti e agevolazioni. Tenendo conto del fatto che negli ultimi anni i canoni abbiano raggiunto livelli altissimi, e della nuova situazione che si è creata, ritengo che per questa categoria di High Street non si renderanno disponibili molti spazi, anche in considerazione del fatto che l’offerta ad oggi è sempre stata molto inferiore rispetto alla domanda, per cui è probabile che in futuro vi saranno aziende interessate ad insediarsi in spazi fin qui molto ambiti».

E per quanto riguarda quelle che lei definisce “Affordable High Streets”?
«Queste High Street non sono da sempre riconosciute come vie dello shopping; generalmente non sono situate nei pieni centri storici delle città, ma nascono in quartieri limitrofi per via di insediamenti di artisti, nuovi sviluppi immobiliari o in quanto zone residenziali di pregio. L’offerta di vetrine su strada è limitata e le superficie dei negozi è di circa 100-150mq. Ad oggi queste vie non sono quasi mai state oggetto di interesse per marchi del Fast Fashion né del lusso. I livelli dei canoni sono molto competitivi rispetto alle categorie precedetemene descritte.
La clientela in questo caso è legata all’esperienza di acquisto “face to face” e non è particolarmente propensa agli acquisti online. Ritengo pertanto che una volta rientrati alla normalità, tali consumatori saranno i primi a ritornare in negozio e non escludo che crescerà l’interesse da parte di retailers per queste zone; quindi non prevedo importanti aggiustamenti al ribasso dei canoni né tantomeno un aumento di vacancy. È possibile piuttosto che in futuro si creeranno nuove “Affordable” High Street».

In sintesi, i mutamenti legati alla pandemia interesseranno dunque sia l’offerta sia la domanda?
Esatto. Io ho sempre descritto le principali High Street dello shopping europeo con un detto giapponese: “Sono come le caramelle di Kintaro”. Sono caramelle ricavate da bastoncini cilindrici che, tagliati, danno origine a caramelle sempre uguali, ciascuna con i lineamenti del volto del popolare personaggio di Kintaro.
Attualmente i protagonisti delle High Street in Europa sono quasi esclusivamente marchi di “mass market” o del “Luxury”: a prescindere dalla città che visitiamo, i marchi che ritroviamo sono sempre gli stessi ed i negozi quasi sempre uguali.
L’effetto-coronvirus porterà alcune aziende a rivedere le proprie strategie e probabilmente a ridurre il numero di punti vendita o le superficie degli stessi: si creeranno quindi opportunità per nuovi retailers che potranno finalmente occupare per la prima volta spazi che in passato non potevano permettersi, perché troppo grandi o troppo onerosi. Anche i centri commerciali dovranno cambiare direzione puntando su un’offerta diversa, che li caratterizzi maggiormente e li renda più attraenti rispetto al passato. In Italia anche i centri commerciali sono praticamente tutti uguali: cosa ben diversa rispetto ad altri che ho avuto il piacere di visitare in Asia e in Europa, che sono invece innovativi e divertenti ed hanno un’offerta più varia.

Anche il consumatore sarà cambiato dopo il lockdown: ricercherà un’offerta retail omni-canale, in base alla tipologia di prodotto che dovrà acquistare, e probabilmente ritroverà il piacere all’acquisto in negozio dove si aspetterà servizi dedicati, un buon rapporto qualità-prezzo e un ambiente piacevole, che diano valore aggiunto al suo shopping.
Credo infine che ci saranno ancora difficoltà da affrontare dopo la fine del lockdown, ma sono molto fiducioso e penso che i cambiamenti a cui andremo incontro porteranno nuova vita al retail ed al Real Estate e, di conseguenza, a nuove opportunità».

Cosa pensa dei supporti delineati dal governo italiano per i retailers?
«L’Italia rispetto ad altri Paesi europei si è mossa rapidamente, per esempio con l’introduzione, subito dopo aver decretato il lockdown, del credito di imposta a favore dei conduttori pari al 60% del canone di locazione e della cassa integrazione in deroga. Grazie a ciò finora non si è assistito a massicci licenziamenti come invece successo negli Stati Uniti, e per tale ragione credo che in Italia molte aziende potranno ripartire più velocemente rispetto ad altri Paesi.

Meno attenzione forse si è posta ai proprietari immobiliari, che nel secondo trimestre hanno registrato un incasso di circa il 30% dei canoni dovuti oltre dover gestire intense trattative con i conduttori. L’ideale sarebbe stato introdurre, in tempi brevi, normative ad hoc in materia di riduzioni e rinegoziazioni dei canoni di locazione, fin qui non previste, al fine di dar maggior tutela sia ai retailers che ai proprietari. Il Giappone, per fare un paragone, non si è mosso altrettanto velocemente e non ha previsto nessun aiuto per i retailers né dal punto di vista dei canoni né per i dipendenti. Il governo tra l’altro non ha imposto il lockdown, lasciando la responsabilità alle provincie; per esempio Tokyo ha deciso di incentivare i negozianti alla chiusura con un bonus una tantum da 4000-8000 euro in base al numero dei negozi gestiti, ma naturalmente queste misure non sono sufficienti».

Prevede che ci saranno ancora aziende estere interessate al mercato italiano nel post-coronavirus?
«Negli ultimi abbiamo visto approdare multinazionali estere che hanno arricchito l’offerta retail in Italia. Per citare alcuni marchi importarti ricordiamo: Starbucks, Uniqlo, Primark, Canada Goose ecc Bisogna però sottolineare che l’oggetto di grande interesse per gli investitori stranieri sono state le aziende del “made in Italy”. Gruppi provenienti da diverse parti del mondo sono venuti a “fare shopping” in Italia acquisendo di fatto un numero rilevante di maison italiane.
Per quanto riguarda il futuro posso dire che alcuni degli sviluppi/acquisizioni in corso prima del coronavirus sono in fase “wait and see” , mentre altri stanno proseguendo con le precedenti strategie, come nel caso di alcune società che abbiamo il piacere di seguire nella ricerca del loro Flagship store in Italia. Per molti retailers, infatti, rimane fondamentale la presenza su piazze come Milano in quanto utili al posizionamento e all’immagine del brand e più in generale alla penetrazione dei mercati esteri».

Fonte: ilsole24ore.com

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