Da Walmart negli USA alla GDO italiana

Quando si parla di supermercati, non si può non ricordare la storia di Walmart, numero uno mondiale della grande distribuzione, 1 milione e 400 mila dipendenti negli Stati Uniti e vendite per 476 miliardi di dollari, pari a circa un quarto del Pil italiano. Un gigante che è andato avanti per più di 50 anni come un carro armato sfidando le class action americane, le accuse di pratiche anti sindacali e di lavoro sottopagato e che all’improvviso, davanti ai colossi dell’ecommerce, ha cominciato a tremare. Appena qualche giorno fa infatti Walmart ha annunciato ai mercati che gli utili nel 2016 resteranno fermi ai livelli di quest’anno, mentre nel 2017 potrebbero scendere tra il 6 e il 12%. È bastata questa notizia per far crollare il titolo a Wall Street del 10% in una sola seduta, il calo giornaliero più forte dal 1988.

Nel 1999 Amazon era una società appena nata con un fatturato annuo di 1,6 miliardi di dollari contro i 138 di Walmart. L’anno scorso il fatturato di Amazon è stato 54 volte quello del ‘99, quasi tutto proveniente da vendite online. Il fatturato di Walmart è più o meno tre volte quello di quindici anni fa (486miliardi) e solo il 2,5% viene dall’online». Gli investitori, in questa guerra tra Golia, hanno già incoronato il vincitore: nel mese di luglio il valore di Borsa di Amazon ha superato per la prima volta quello di Walmart e ora è sopra di ben 75 miliardi di dollari. Un caso emblematico, perché anche fuori dai confini a stelle e strisce, tra crisi dei consumi, ritirata di stranieri, casi di esuberi e mobilità, la cosiddetta Gdo (grande distribuzione organizzata) ha iniziato già da tempo a mostrare qualche segno di cedimento. Anche in Italia, dove Amazon non ha perso tempo e da quest’estate ha cominciato a vendere alimentari a lunga conservazione e prodotti per la cura della casa. Creando il panico tra i player che qui continuano a lavorare a differenza di chi, come gli austriaci di Billa, hanno da poco deciso di andar via. Perchè seppur qualche segnale di ripresa di fiducia comincia a palesarsi, è vera una cosa: gli italiani spendono meno. E l’andamento dei consumi delle famiglie, dopo l’apice del 2007 ha preso a invertire la rotta fino ad arrivare all’annus horribilis 2013 quando i consumi sono scesi a 922 miliardi, 26,9 in meno rispetto a quindici anni fa (fonte, Federdistribuzione).

I colossi della Gdo hanno dovuto guardare in faccia la realtà: i consumi che i tecnici chiamano «commercializzabili» (alimentari e non alimentari) sono i più bassi dagli anni‘90. Rappresentavano una fetta del 38,9% dei consumi totali delle famiglie nel ‘91, oggi sono appena il 21,4%. Lo sanno bene i principali gruppi della Gdo: Coop, Conad, Selex, Esselunga, Auchan e Carrefour che stanno rivedendo le loro strategie di business alla luce dei nuovi competitor come i colossi internet e gli operatori specializzati tipo i discount, che in Italia sono passati da una quota di mercato dell’8,4% del 1998 all’11,9% del primo semestre del 2015. Ma non solo. Perchè in questa lotta del carrello, si sono affacciati sul mercato anche altri operatori specializzati come Eataly contro cui, non a caso, si è più volte esposto il patron dell’Esselunga Bernardo Caprotti.

E poi c’è la sfida della spesa online: quella che gli esperti chiamano «egrocery», in Gran Bretagna ha già una quota di mercato dell’8,3%, in Francia è arrivata al 5,8%, in Italia è ferma appena allo 0,7%. Ma se Amazon ha deciso di puntare al nostro paese con «Prime», non è un caso. Secondo l’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano il comparto alimentare è stato nel 2015 uno dei settori più dinamici nel panorama dell’ecommerce italiano. Eppure siamo ancora fermi a quello 0,7% dell’egrocery.

tratto da corriere.it

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